Ucraina un anno dopo, molto si è raccontato da quel 24 Febbraio e poco si è fatto. L’operazione militare speciale russa di annessione dei territori filorussi, che a loro dire sono e vogliono esser considerati tali, si è trasformata in un guano. L’Ucraina è diventata l’Afghanistan russo, inutile nascondere che Putin avesse auspicato ben altro fine a distanza di un anno, prove ne sono il continuo cambio al vertice delle operazioni militari, i mesi di stallo in battaglie che si preannunciavano vittorie facili e l’uso della violenza e delle barbarie per fiaccare e piegare una popolazione che per bocca dei massimi esponenti politici filo-putiani li avrebbe accolti con fiori, bandierine e abbracci come salvatori dalle grinfie di un nemico nazista. Provincie che sono russofone e che forse non sono del tutto russofile. Dalle sanzioni, ai sequestri dei beni, dalle perdite di vite umane che si valutano numericamente a uso e consumo di parte, solo per dimostrare che la realtà non è quella dei media occidentali, alla celata volontà politica di voler difendere i confini per legittimare la giusta sovranità dello stato russo, sino ad arrivare alla vera realtà, quella di un dna storico da imperialista che doveva aiutare gli strateghi militari russi a rispolverare i libri di storia, che tanto servono per non ripetere gli errori del passato e che verranno pagati dalle generazioni future anche in termini di crescita economica. Si parla di operazione militare speciale per annettere territori, ma la verità è quella dei numeri freddi che indicano in un anno migliaia di morti, sangue russo che lascia una scia che parte da Mosca e termina in Ucraina, figli della grande madre patria russa che non torneranno più a casa sulle loro gambe e che saranno ricordati in un lungo elenco di un monumento che in futuro sarà eretto a ricordo degli eroi di conquista. A tutto ciò, le future generazioni si chiederanno il perché di tutto questo cercando la formula per risollevare le sorti economiche di un paese che ad oggi avrebbe in eredità da questo conflitto (perché di conflitto si tratta), solo una profonda perdita economica e di credibilità politica a livello mondiale. Allora, ad un anno di distanza ci si chiede il perché dopo una pandemia che ha messo tutto il mondo in ginocchio Russia compresa, si possa pensare di attuare una operazione militare che doveva essere segreta e rapida ma che tale non è stata. Nell’ottica della strategia militare russa, forse vi era la convinzione di approfittare dello stordimento mondiale dovuto al post pandemia per trarre un vantaggio tattico e mettersi in un punto di forza sin da subito, per poi costringere l’Ucraina a trattare. Quest’ultima colpita a freddo non avrebbe potuto non accettare le condizioni di Mosca pur di impedire il suo tracollo, il ché avrebbe permesso di creare uno stato fantoccio e satellite delle politiche del governo russo. Ciò ad oggi non c’è stato infrangendo le più rosee aspettative russe di una guerra lampo.  La strategia militare russa sotto l’aspetto di una blitzkrieg che inizialmente ha dato i suoi frutti portando l’avanzata in territori ove si spargeva sangue civile più che militare, con il passare dei giorni e dei mesi complice anche il baricentro mondiale spostato a favore degli ucraini si è ridotto, riducendo il divario tra le due compagni e trasformandolo in una battaglia porta a porta, ove le rispettive strategie mediatiche ogni giorno rivendicano periferie o villaggi conquistati da una parte, mentre il fronte opposto sbandiera coraggiose resistenze e riconquiste. Si, perché la guerra è anche questa, una guerra di media che spostano gli assetti e le posture geopolitiche delle varie nazioni e organizzazioni e che innalzano o minano le forze mentali dei contendenti. Nel 2014, nel cuore del vecchio continente scoppiava la questione ucraina, il caso o non per caso, il suo culmine arriva il 22 febbraio del 2014, ove l’Ucraina si scopre agli occhi del mondo e il mondo scopre la questione ucraina. Nell’anno in cui il 29 giugno il califfo Abu Bakr Al Baghdadi dichiara la nascita dello Stato Islamico presentandosi al mondo con il biglietto da visita della successiva tragica decapitazione del giornalista statunitense James Foley per far comprendere la sua spietata ferocia, nel cuore dell’Europa la questione ucraina riporta i venti della guerra fredda. In quel 22 febbraio a seguito dei fatti di piazza Euromaidan il presidente ucraino Viktor Janukovyč  fugge in Russia e successivamente viene rimosso. Ben presto scoppiano le rivolte delle cosiddette province satelliti filorusse: Crimea, Donbass, Doneck e Lugansk; ma con esiti differenti. Se per la Crimea vi fu l’annessione da parte dei Russi, nel Donbass scoppiarono forti scontri tra i filorussi e il governo ucraino, mentre Doneck e Lugansk si dichiararono indipendenti. Il 5 settembre dello stesso anno a Minsk fu siglato un protocollo per stabilire il cessate il fuoco che successivamente è stato violato da entrambe le compagini. Sempre nel febbraio, ma questa volta del 2015 la Francia e la Germania riportarono Russi e Ucraini al tavolo per rinnovare il protocollo per cessate il fuoco. Puntualmente anche in questo caso il protocollo fu disatteso il che porta al culmine della tensione tra i due paesi nell’incidente nello stretto di Kreck, unico accesso al Mar di Azov ove navi russe sparano verso quelle ucraine. Ad oggi, non vi sono passi in avanti e il conflitto vive una fase di stallo che potrebbe durare settimane per non dire mesi, la battaglia porta a porta, vede il governo russo non indietreggiare nel suo intento e il governo ucraino sempre più sostenuto dalla componente atlantista, sia a livello militare che politico, resistere e cercare di mantenere le posizioni. In questa guerra di posizione, ma soprattutto guerra di blocchi, si rispolverano le similitudini con il periodo della  guerra fredda ove la minaccia di un conflitto atomico era anche l’arma mediatica per mettere pressione all’avversario. Da quel 24 febbraio non sono stati fatti passi avanti nella costruzione di un protocollo di pace, dalle iniziali conversazioni tra le varie diplomazie ai tentativi dei vari governi di diversa estrazione politica, si è passati al silenzio. Quel silenzio che pesa come un macigno su entrambi i fronti. Pesa sulle sorti delle popolazioni che vivono il conflitto giorno dopo giorno sulla loro pelle, come anche su quelle dei dissidenti russi che proprio non vogliono la guerra e vengono messi a tacere o addirittura muoiono in circostanze a dir poco chiare. Se la guerra sta all’ego di chi la combatte, la pace sta alla crescita della consapevolezza che bisogna mettere da parte qualsiasi egocentrismo. Inevitabilmente il conflitto è scivolato sul terreno viscido che contrappone il blocco atlantista con capofila gli Stati Uniti contro il blocco russo. Ad oggi, la prospettiva non è quella di una pace immediata, ma neanche di un minimo cessate il fuoco. I tavoli della diplomazia sono vuoti, come sono vuote le parole di intento dei vari attori che di volta in volta salgono sul palcoscenico sbandierando possibilità di riportare la pace. Il rumore delle armi, l’odore acre della morte e l’ego sovrastano ogni spiraglio di pace. Bisogna aiutare il popolo ucraino poiché invaso nella sua sovranità di stato indipendente e democratico. Vero, senza però dimenticare che bisogna altrettanto costruire ponti affinché si possa riportare due popoli fratelli alla pace. In questo senso l’ego muove poco o nulla, allora per meglio dare una ragione ad una guerra che apparentemente senso non ha chiederemo lumi a Cicerone, che nella sua filippica (Philippicae, VII, 6,19) tratta la pace attraverso il concetto di difesa armata. “Se vogliamo la pace bisogna fare la guerra”. Questo è stato l’aspetto che avrà mosso Zelensky, il quale non abdicando e non fuggendo come ha fatto il suo predecessore filorusso, ha deciso di lottare e di rimanere al fianco del suo popolo, che spinto solamente dal proprio orgoglio sta fronteggiando i Russi dallo spiccato dna militare. Gli Ucraini hanno abbracciato le armi per difendere e far ritornare la pace a casa loro. Questo è stato anche il motivo del coinvolgimento dei paesi membri del patto Atlantico e per questo stanno inviando armi agli Ucraini, per difendersi. Ciò diventa soprattutto un messaggio di compattezza che arriva alla controparte russa. La realtà dei fatti stando alla storia passata, è che la guerra sul territorio ucraino non è solo una guerra tra una nazione satellite che deve ritornare nella galassia madre, ma è soprattutto una dimostrazione di intento di ampliamento dei confini da parte dei Russi e di difesa di quella territorialità sempre meno latente statunitense in Europa, una guerra per procura. In conclusione, a distanza di un anno e ad oggi sembra alquanto improbabile parlare di pace se le compagini continuano a pensare di farsi guerra senza pensare alle vittime che ogni giorno crescono non solo tra i soldati ma soprattutto tra i civili. Quanto sangue ancora dovrà scorrere sino a quando non si capirà che la pace è un velo sottile che squarciandosi diventa qualcosa da cui ripartire per entrambi, non ci sono ne vincitori ne vinti. Nell’arte della guerra di Sun Tzu, l’insegnamento più grande che ci lascia in eredità è quello in cui spiega che la vittoria per eccellenza è quella in cui raggiungi il tuo obiettivo senza necessariamente usare la forza. Si pace frui volumus, bellum gerendum est, sperando che questa volta abbia proprio ragione.

 

di D. S.

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