Una fulgida e viva testimonianza di fede a fianco degli emarginati e dei bisognosi lacerati dalla piaga del disagio sociale. Un amore estremo e senza limiti per quella Chiesa che ha sempre cercato di rendere pura, semplice, feconda di amore e vicina ai giovani. Un punto di riferimento per tutti i parroci che, nelle continue difficoltà della vita quotidiana e nei rischi della loro attività pastorale, cercano di avvicinare la comunità parrocchiale alla parola di Dio. Con queste poche e semplici righe abbiamo cercato di riassumere la vita e l’operato di Monsignor Antonino Bello, per tutti “don Tonino”, il prete, parroco, scrittore e poeta dalle scelte forti e coraggiose. Dopo il via libera della Congregazione delle cause dei santi, il 30 aprile 2010 nella Cattedrale di Molfetta si è aperta la fase diocesana della sua causa di beatificazione (Prefetto il cardinale Angelo Amato, per mano del postulatore mons. Luigi Michele de Palma). Nel decreto, datato 17 aprile 2015, si constata «la validità della medesima Causa diocesana sul caso e secondo le finalità di cui si tratta, fatto salvo tutto ciò che c’era da salvare secondo la legge. Senza opposizione alcuna sui pro e sui contro»

Cosa c’è di straordinario nella sua figura? Don Tonino era una figura straordinaria, unica e per certi versi anche circondata da un alone di mistero. Nel suo incarico pastorale, allorquando fu nominato nel 1978 amministratore della parrocchia del Sacro Cuore di Ugento, e l’anno successivo parroco della Chiesa Matrice di Tricase, si mostrò sempre attento alle tristi e terribili tematiche della povertà e del disagio sociale. Il 10 agosto 1982 fu nominato vescovo di Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi. Il mese successivo, esattamente il 30 settembre, ricoprì lo stesso ministero anche per la diocesi di Ruvo diventando al momento dell’unificazione delle quattro Chiese locali il primo pastore di Molfetta-Giovinazzo-Ruvo-Terlizzi Non solo! Sin dall’inizio della sua attività pastorale, per sua disposizione, rinunciò a tutti i segni esteriori del potere: il suo unico obiettivo era quello di combattere per i più deboli e bisognosi attraverso una grandiosa opera di evangelizzazione, carità su cui svilupperà la sua idea testimonianza di fede al servizio di un’idea di Chiesa nuova e riformata. Famosa la celebre espressione “Chiesa del grembiule”, da lui stesso coniata, con la quale faceva chiaro riferimento all’intento di dare vita ad una Chiesa vicina alle persone sofferenti attraverso il richiamo agli insegnamenti semplici e puri del Vangelo di Cristo.

Tante le sue attività, ricordiamo la costituzione di gruppi Caritas in tutte le parrocchie della diocesi; la fondazione di una comunità per la cura delle tossicodipendenze; la vicinanza agli operai delle acciaierie di Giovinazzo in lotta per il lavoro; la partecipazione alla marcia di Comiso per dire no ai missili; l’opposizione all’installazione degli F16 a Crotone e degli Jupiter a Gioia del Colle; la campagne per il disarmo, per l’obiezione fiscale alle spese militarie e, cosa importantissima e che merita di essere menzionata, la marcia pacifica a Sarajevo, di cui fu fautore e guida nonostante il peggiorarsi delle sue condizioni di salute dovute ad un cancro fulmineo che lo portò alla morte il 20 aprile 1993.

Il 20 aprile 2018 papa Francesco, a bordo del suo aereo privato, ha fatto visita alla tomba di don Tonino ad Alessano, nel Salento, con in mano un bouchet di fiori da donare al beato. Una volta arrivato, il papa depone i fiori, si toglie la papalina e si inginocchia pregando per qualche minuto sulla tomba del sacerdote. Queste le toccanti parole del Santo Padre: «La tomba di don Tonino non si innalza monumentale verso l’alto; scandisce, ma è tutta piantata nella terra: don Tonino, seminato nella sua terra, sembra volerci dire quanto ha amato questo territorio». Subito dopo l’omelia tenuta dal papa di fronte a 15000 persone, si affretta a decollare da Alessano, levandosi sopra il piccolo cimitero dove campeggia una scritta semplice: “Pax”, ch’era il sogno di don Tonino.

Proponiamo di seguito il testo dell’omelia scritta da don Tonino in occasione dei funerali di Raffaele, fatello della cognata Velia e morto giovanissimo in un incidente stradale. La riportiamo integralmente per la veemenza e la bellezza delle parole.

“Cari fratelli, che il vincolo del sangue o la voce del cuore o il sentimento dell'amicizia ha radunato qui insieme, per rendere l'estremo saluto e l'omaggio della più affettuosa preghiera a un giovanetto, che fino all'altro ieri sorrideva in mezzo a noi, carico di sogni e di speranze!

Se non fossi certo di offendere in questo momento il dolore di tutti, mi verrebbe il desiderio di commentarvi la frase di un celebre poeta latino "Quem dii diligunt, adulescens moritur", "Muore giovane, colui che al cielo è caro".

Ma mi sembra un imperdonabile sacrilegio il solo tentativo di lenire la vostra amarezza con la debole retorica di un pagano. Sono troppo crudeli le circostanze che hanno accompagnato questa morte penosa, perché possano bastare le vuote parole degli uomini. Un giovanetto nel pieno rigoglio dell'età, quando tutto dice vita, esuberanza di vita, volontà di vita. Un figlio, orfano di padre, oggetto di desideri ardenti prima, di affetti tenerissimi poi, fulcro di tante ineffabili speranze per l'avvenire.

La madre vedeva: dolore e debolezza, sacrificio e sofferenza, solitudine indicibilmente penosa. Una morte tragica in agguato a una curva della strada.

Povere parole umane! Che cosa possano mai significare di fronte alla tragica realtà di questa bara, al di là di una condoglianza stereotipata, al di là di un'espressione cordiale d'impotente compassione?

Ma se le parole degli uomini si frantumano in fredde sillabe prive di vigore, le parole di Dio hanno il sovrumano potere di alleggerire il peso di ogni sconfinato tormento e di illuminare di gioia anche il mistero della morte.

Pare una fortuita coincidenza, ma a me il pensiero è corso subito al passo evangelico che ascolteremo nella liturgia di domenica prossima.

Gesù stava per entrare in Nain a poche miglia da Nazaret, quando incrociò un corteo. Portavano al sepolcro il giovane figlio di una vedova. Costei aveva perso lo sposo pochi anni prima. Le era rimasto questo figlio solo e ora portava a sotterrare anche lui. Gesù vide la madre che andava tra le donne, piangendo con quel pianto attonito e rattenuto delle madri.

Aveva al mondo due uomini che le volevano bene: era morto il primo, era morto il secondo, uno dopo l'altro. Tutti e due spariti. Restava sola, una donna sola, senza un uomo. Sparito l'amore memoria della gioventù; sparito l'amore speranza dell'età declinante. Finiti tutti e due quei poveri, semplici amori. Squallore e solitudine regnavano ora nella sua casa, affollata soltanto di lancinanti ricordi, e i giorni per lei scorrevano monotoni, tristi, interminabili. Gesù ebbe pietà di quella madre.

«Non piangere» disse pieno di intima compassione. Poi si avvicinò alla bara e la toccò. Il giovane vi giaceva disteso, avvolto nel lenzuolo, ma col viso scoperto composto nel lividore ansioso dei morti.

«Giovinetto, ti dico levati, su!» E quello, obbediente, si levò a sedere sulla bara. E Gesù lo rese a sua madre, che, con le gramaglie disfatte dalle lacrime, accolse tra le sue braccia il figlio risuscitato.

Cari fratelli, di queste due frasi pronunciate da Gesù, "Non piangere", "Giovinetto, risorgi", la fede ci autorizza a ripetere stamattina l'una e l'altra.

Non piangere donna. E’ vero, il dolore ti ha sbarrato più volte la strada. E l'uscio di casa fuori si è chiuso ancora, gemendo, dietro un altro che non torna mai più. Ma non sciupare le tue lacrime. Se le versi per terra, diventano fango; se le rivolgi al cielo, brillano come perle al sole. Gli uomini non le raccolgono perché ne ignorano il valore. Dinnanzi alle tue pene altro non sanno fare che tacere. Ma c'è chi le conosce, chi le raccoglie, se tu gliele porgi, e le conta a una a una, e le semina per trarre frutti di consolazione.

Ma possiamo dire anche l'altra frase di Gesù: "Giovanetto, risorgi!". Sì, Gesù l'ha detto: «Io sono la risurrezione e la vita». Ha assicurato che chi vive credendo in lui non muore per sempre. Ha mostrato nella morte non l'annientamento angoscioso e crudele, ma il tramonto di una giornata; non un portone di uscita, ma una porta di ingresso.

Resta, sì, nella morte, il suo peso di pena, ma quanta luce di speranza e quale ricchezza di conforti interiori alleviano quel peso, rasserenando chi parte e chi resta. Per Gesù la morte non è che un sonno. Un sonno più profondo del sonno comune e giornaliero. Così profondo che soltanto un amore sovrumano lo rompe. Amore dei superstiti più che del dormiente.

C'è un passo del libro della Sapienza che in questo momento vorrei ricordare a quanti, amici e coetanei del povero Raffaele, si stringono intorno alla sua inerte persone avvolta nel gelo della morte. "Fu rapito perché la malizia non alterasse il suo spirito, e la seduzione non ingannasse l'anima sua"

Cari giovani, accogliete il monito supremo che parte dalla bara di questo vostro amico che ha conosciuto la notte prima della sera, e trasformate la vostra vita in un impegno costante di lavoro, di obbedienza, di sacrificio e di purezza!

E ora ti preghiamo, o Signore, coralmente, tutti insieme.

Per la giovinezza freschissima e promettente di questo tuo servo, per i dolori indicibili della sua agonia, per la nostra sconfinata afflizione, per l'amore che tu hai portato alla tua mamma, la Madonna del Riposo, dona a Raffaele la luce del riposo eterno nel cielo, e a sua madre che resta sola sulla terra, stelo senza fiore, dona la forza di compiere, fino all'ultimo, la tua volontà”.

 

Gabriele Russo

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